Book club
Gli incontri del book club si tenevano ogni giovedì alle 21, nella sala centrale di una piccola biblioteca privata; e quando dico “piccola biblioteca privata” intendo “grosso monolocale adibito esclusivamente a scaffali”. Apparteneva alla presidentessa del club, una ex-infermiera con la passione per le torte e la lettura. Niente librai interessati a venderti il libro del mese, quindi, o bibliotecari alla testa di chissà quale crociata culturale.
Frequentavo il book club da ormai un anno quando arrivò il nuovo iscritto. Iscritto o iscritta, non era certo facile dirlo, e tutt’ora non saprei esattamente come identificarlo. Diciamo iscritto, per comodità.
La sua presenza inizialmente lasciò tutti quanti un po’ sconcertati. Nelle settimane seguenti, pian piano, qualcuno sentì il bisogno di trovare una scusa per sparire. Altri invece non si fecero problemi a far sapere a tutti che se ne andavano per colpa sua. «Non intendiamo certo condividere il club con quella cosa» scrissero di comune accordo in una email lunga e triste; triste principalmente per la figura che ci facevano.
Se il suo arrivo aveva sfrondato diversi rami vecchi, bisogna riconoscere che servì a migliorare sensibilmente la qualità degli incontri. E non tanto perché le persone rimaste fossero più intelligenti di quelle che se ne erano andate, quanto piuttosto per il valore apportato alle discussioni dal suo contributo. Un punto di vista insolito, indubbiamente; perlomeno, io non me lo sarei mai aspettato. Non da uno così. (Uno o una, insomma.)
Però non fu da subito. All’inizio non parlava; veniva lì, si sedeva al suo posto e ascoltava attentamente. All’inizio non sapevamo nemmeno come si chiamasse.
Ricordo ancora lo stupore nel sentire per la prima volta la sua voce e constatare che non aveva niente a che vedere con quello che mi immaginavo. Era calda e melodiosa; e gentile.
«Ciao a tutti,» disse un giorno «io sono Lou.»
Poi si sedette al suo posto, come di consueto, e la serata procedette come sempre; l’unica differenza fu sua partecipazione al dibattito. Da quella volta diventò il vero tesoro nascosto del club. Ogni suo intervento era sempre molto puntuale e deciso. Erano interpretazioni viscerali, certo, ma calzanti e anche se sembravano essere esclusivamente decisioni di pancia era spesso impossibile non condividerle. Altre volte, invece, sembravano prese di posizione strampalate, che tuttavia mi affascinavano per il trasporto con cui venivano esposte.
Aveva divorato tutto Charles Dickens in poche settimane, ma trovava indigesto Henry Fielding. Trovava gustosissimo Dumas padre e nauseabondo Chrétien de Troyes. Considerava la poesia un genere stoppaccioso, nella sua totalità, ma una sera si profuse in un elogio dell’opera omnia di Umberto Saba, incensando un’edizione specifica. (La cosa, devo dire, mi mandò in confusione: l’edizione da lui citata non aveva niente di diverso dalle altre, se non l’editore; non presentava un particolare apparato critico o materiali aggiuntivi che potessero accrescerne l’importanza; e non c’era dubbio che il suo giudizio fosse in qualche modo legato alla qualità della traduzione, visto che si trattava di un’opera in lingua originale.)
Finché un giorno non sentii l’urgenza di andare a fondo di tutta questa stranezza. Così, una sera che tutti se n’erano andati di corsa per questo o quell’impegno, presi il coraggio a due mani e affrontai l’argomento.
«Grazie del consiglio» iniziai, porgendo verso di lui la mia raccolta delle opere di Saba, di un editore differente.
Quello che ottenni in cambio fu un momento di silenzio attonito. Seguirono alcuni secondi in cui fiutò le pagine, prima con brevi rapidi sniffi, poi con profonde inalazioni.
«No,» aggiunse quindi «Non va bene».
«Ma come?! È identica alla tua, ho controllato! Le poesie sono le stesse, organizzate allo stesso modo. Addirittura il curatore è lo stesso!»
«No,» rimarcò «Questa edizione non va bene.»
«Ma come è possibile?» Lo incalzai «Ma… ma… cos’ha che non va?!»
Mi guardò per un attimo. Poi prese il libro dalle mie mani, che lo allungavano verso di lui come se più che altro volessero allontanarlo il più possibile da me. Lo prese, dicevo, e lo rigirò un po’. Lo aprì, fece scorrere le pagine avanti e indietro, quindi ne strappò una dal centro.
Lo sbigottimento lasciò presto spazio a una sorta di subbuglio interiore, quando lo vidi appallottolare la pagina, metterla in bocca e iniziare a masticarla lentamente.
«Cos--» Ma non riuscii a finire la parola perché mi interruppe con un gesto, senza smettere di masticare.
«La carta è insipida, priva di texture; mentre l’inchiostro è troppo ferroso, a lungo andare può portare nausea ed emicranie. Insomma no, non va bene.»
«Cosa ca--» Questa volta mi ero interrotta da sola, incapace di concludere la frase. Rimasi a guardarlo mentre cercava di rendermi il libro, mentre lo guardavo sconvolta, nel vano tentativo di figurarmi quale dovesse essere il passo successivo.
«L’hai mangiata.»
«Sì.»
«Hai mangiato una pagina del libro.»
«Questo è esatto.»
«Lo…» tentennai un istante «lo fai spesso?»
«Che diamine, certo che lo faccio spesso. Lo faccio SEMPRE!»
Sempre. Mi rimbombò nella testa per il tempo di alcuni cicli di inspirazione ed espirazione. Poi mi calmai. Del resto, aveva perfettamente senso; perché avrebbe dovuto andare diversamente? Alla fin fine, perché mai un pesciolino d’argento avrebbe dovuto comportarsi diversamente? Il fatto di essere grosso quanto un essere umano (anzi, forse anche un po’ di più) non gli imponeva certo tenere coi libri un rapporto diverso rispetto a quello degli esemplari più piccoli della sua specie.
Allo stesso tempo ripensavo a quel che aveva detto e a come l’aveva argomentato e a come tutto, nel bene e nel male, filasse liscio come l’olio. Un passaggio troppo limato era asciutto; una costruzione elaborata veniva definita ricca di texture; una pagina con soli dialoghi era sciapa e priva di carattere. Insomma, ero sempre stata io (o, meglio, tutti noi) a non capire che Lou, l’enome esemplare di lepisma saccharina, il nuovo membro del nostro book club, non faceva altro che mangiare i libri. Ogni settimana si cibava dei capitoli di cui si sarebbe dibattuto il giovedì, e restituiva un’analisi calzante di ogni paragrafo, capitolo e passaggio del libro.
«Be’, io vado» mi disse mentre mi stavo ancora perdendo tra i miei pensieri. Poi imboccò la porta e uscì, senza darmi in tempo di salutarlo a mia volta.
Quella fu l’ultima volta che lo vedemmo. Come se, con il mio comportamento, io avessi in qualche modo incrinato l’equilibrio e ora non si potesse fare più niente per rimetterlo a posto.
Con la sua scomparsa, pian piano, il club recuperò i membri che si erano allontanati e la vita tornò a scorrere come prima. Ogni tanto qualcuno si azzardava a ritirare fuori l’argomento, ma non durò molto. Nel giro di poche settimane fu come se niente fosse mai successo.
Alcuni mesi dopo il corriere mi consegnò un pacco. Si trattava di una busta di carta piuttosto voluminosa, che misurava 25x15 centimetri. Il mittente non era indicato. Conteneva una copia di “Sessanta Racconti” di Dino Buzzati e un biglietto, che recitava:
Ultimamente ho provato anche a leggerli.
Questo mi ha colpito in particolar modo. Davvero niente male!
A presto,
Lou
Lo aprii in un paio di punti, prestando attenzione al font utilizzato e all’impaginazione. Poi feci passare le pagine fino ad arrivare all’indice. Lessi con molta attenzione i titoli dei racconti, quindi strappai la pagina con un colpo netto e la misi in bocca frettolosamente, quasi come se avessi paura che qualcuno potesse vedermi. Masticai per qualche istante.
«Sì,» dissi poi tra me e me «non è male.»